Amare e viaggiare. Oltre la rima in “Casa di carne” di Bonafini
3rd Sep

2014

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Amare e viaggiare. Oltre la rima in “Casa di carne” di Bonafini
Il secondo romanzo di Francesca Bonafini, pubblicato da Avagliano editore, si presenta intrigante già dal suo titolo. “Casa di carne” infatti racchiude una pura ricerca dell’essenziale contornato di una costante leggerezza.

Tema fondamentale, il viaggio; elemento che si può capire anche dalla suddivisione del testo in quattro parti, ciascuna delle quali porta il nome di una città: Trieste, Brest,  Rio de Janeiro, Lisbona.

La protagonista, una giovane donna di nome Angela dopo tanti sacrifici e varie peripezie riesce a trovare un impiego stabile in un albergo come cameriera. Ciò nonostante, lo spirito libero e sognatore la portano a non svuotare mai la valigia.  Crede fermamente nell’amore e arriva man mano alla convinzione che la cessazione di ogni sentimento sia in realtà un nostro addio preparatorio alla vita. È possibile perdersi tra avventure, amicizie e una lettura che scorre velocemente in un vortice inarrestabile e incontrollabile.

INTERVISTA:

I punti in comune dell’autrice con la protagonista?

La storia di Angela ha poco a che fare con la mia biografia, ma con Angela ho in comune lo sguardo sul mondo, e i pensieri, e soprattutto il modo di intendere l’amore, che è per me una forza totalizzante, miracolosa, salvifica anche quando sembra perdizione. C’è una canzone di Ivano Fossati che dice: umanissimo amore, soluzione del mistero dei dolenti, soluzione di ogni disperanza per occasione d’amore perduta. Io non saprei dire di meglio: davvero l’amore, in tutta la sua umanissima fragilità, è la soluzione del mistero dei dolenti.

Poi, per quel che riguarda l’attitudine alla fiducia nelle parole dell’altro e la convinzione che per fare qualcosa di buono bisogna innanzi tutto partire dalla propria minuta quotidianità e cercare di essere il più possibile coerenti con il proprio desiderio e leali e nei confronti di chi ci sta accanto, ecco, in questo spero di somigliare un po’ a Angela. O, per lo meno, lo vorrei: cerco di impegnarmi in quella direzione.

Ma ti confesso che c’è qualcosa di me anche nel disincantato Alessio e nel tormentato Mateus. Diciamo che uno quando scrive distribuisce qua e là, nei vari personaggi, alcune visioni che gli appartengono.

Passione, sentimenti e voglia di viaggiare continuamente sono le componenti fondamentali; spesso però nel libro, come nella vita, questi elementi non vanno proprio d’accordo. Come sei riuscita a incatenarli ottenendo poi un prodotto di una qualità così alta?

Il viaggio di Angela è volto alla ricerca di un senso: il suo percorso esistenziale è fatto anche di spostamenti geografici, ma non necessariamente la ricerca di senso coincide con lo spostamento fisico. Anche la cella del monaco è viaggio. Anche restare ancorati è viaggio: un viaggio di immersione, di dedizione. Ognuno deve trovare da sé la propria strada verso la pienezza.

Il senso che Angela cerca ha in realtà a che fare soprattutto con il corpo dell’altro: quella è la sua vera geografia. Nel corpo della persona amata c’è un mondo che vale più di qualsiasi spostamento.

Nel testo c’è un passo in cui Tiago cita ad Angela dei versi di un poeta portoghese che si chiama Alexandre O’Neill: Sei os teu seios. Sei-os de cor, che tradotto in italiano vuol dire So i tuoi seni. Li so a memoria. Tiago le dice che in quelle parole che suonano così bene ci sta dentro tutto ciò che lui desidera, non ci sono terre o conquiste o vanità che valgano quella conoscenza.

L’amore è proprio così: sapere a memoria il corpo dell’altro, ma non averne mai abbastanza.

Detto ciò, credo che in Casa di carne si percepisca nettamente la fascinazione che i luoghi geografici hanno su di me. Per esempio, amo le città, le amo a partire dai loro nomi. Se ci pensi, basta nominare un posto e già si anima in noi un immaginario. Ti faccio l’esempio di Lisbona, che è uno dei quattro attraversamenti su cui si innesta il romanzo: per almeno una decina d’anni l’ho sognata e desiderata prima ancora di vederla coi miei occhi. Complice Lisbon story di Wim Wenders, ma anche molta letteratura, e soprattutto il fado, che è uno dei generi musicali che più mi commuovono in assoluto.

E non sono solo le città ad appassionarmi. In Casa di carne c’è anche il mio amore per le acque marine e per i porti, e la mia passione per i fiumi. Vado pazza per i fiumi. Sono nata in una città che ha un fiume magnifico. A Verona, attraversando Ponte Pietra, si resta incantati dal rumore che l’Adige fa in quel punto lì. E tutt’attorno, mentre il fiume scroscia fragorosamente, c’è la bellezza assoluta: da Ponte Pietra la visione è strabiliante. Qualche tempo fa ci portai Patrizia Rinaldi, proprio per farle vedere quello scorcio di Verona e farle sentire come canta il mio fiume. Le piacque così tanto che inserì Ponte Pietra e il suono dell’Adige nel suo Tre, numero imperfetto, edito da e/o nel 2012.

E poi, oltre ai posti immaginati, ci sono i luoghi del cuore concreti, quelli in cui si è amato, in cui si sono fatti incontri fondamentali. I luoghi della propria biografia sentimentale insomma.

Quando ci si innamora di qualcuno, ci si innamora anche del suo mondo, delle sue origini, della geografia territoriale e linguistica in cui è cresciuto o in cui ha scelto di vivere. I suoi posti, le sue strade, le sue abitudini. O almeno a me è sempre capitato questo, ossia che l’amore abbracci tutto, e sia totalizzante, e che comprenda anche delle trasformazioni, ma mai una fine. Immancabilmente, il mio pensiero da innamorata è questo: amo tutto di te, l’accento della tua regione quando parli, la via in cui abiti, la musica che ascolti, il cibo che mangi; e amo anche ciò che di te non mi piace. E amo tutto di noi insieme: la panchina su cui ci siamo seduti, i vicoli in cui ci siamo abbracciati. E questo non è reversibile, sarà così per sempre, anche se le relazioni possono modificarsi.

La prima volta che ho pensato al concetto di casa di carne è stato molti anni fa a Roma, che è una città in cui ho molto amato. E la Roma delle periferie, non a caso, è lo scenario di Mangiacuore, il mio primo romanzo, edito nel 2008 da Fernandel.

Ma potrei continuare all’infinito a parlare di città, fiumi, mari, paesi, strade, vicoli, panchine: quelli della mia biografia e quelli della mia immaginazione. In questo periodo che ho la fissazione per i racconti di Tennessee Williams mi è venuta voglia di New Orleans, e di New York, e dell’America tutta. Non ci sono mai stata, e non ne avevo mai avuto il desiderio: pensa a quanto è prodigiosa la letteratura.

Ma in verità io sono una viaggiatrice millimetrica: adoro gli spostamenti piccoli. Anche pochi chilometri, o semplicemente i passi sulla strada. Da Verona magari prendo la macchina è vado – faccio un esempio a caso – a Creazzo, alla sagra del broccolo fiolaro, tanto per dire un posto vicino. E già mi pare bello come partire per l’America.

Un’altra città che ho immaginato e amato per tanti anni ancor prima di metterci piede è Genova, e lì hanno contato soprattutto la musica e la poesia. Genova non c’entra niente con la geografia di Casa di carne, ma te la nomino perché si è già manifestata nel mio narrare (mi riferisco al monologo del personaggio Elisa Franzin, ossia al mio pezzo del romanzo collettivo Il Cavedio, uscito nel 2011 edito da Fernandel) e so che sarà un posto fondamentale per narrazioni future.

C’è un episodio o un momento in particolare nel testo a cui ti senti più vicina?

Sono legata a tutti e quattro gli attraversamenti: Trieste, Brest, Rio de Janeiro, Lisbona. Non saprei dirtene uno in particolare. Forse, se devo individuare una mia personalissima e biografica vicinanza, ti direi Rio de Janeiro, perché la quotidianità di Angela a Rio prende spunto da alcune mie esperienze brasiliane. Ho abitato in una città che si chiama Angra dos Reis, che dista da Rio centocinquanta chilometri circa. Ogni tanto andavo a Rio in giornata, prendevo l’autobus la mattina presto e in due ore e mezza ero là, per rientrare poi ad Angra la sera. Giravo soprattutto nel quartiere Centro, andavo per librerie, avevo le mie fissazioni: la Leonardo da Vinci in Avenida Rio Branco, e soprattutto la Berinjela, che è lì accanto, e vende libri vecchi e usati, che sono la mia passione. E poi a Rio ho fatto cose bellissime: ho visto concerti di Egberto Gismonti, Caetano Veloso, Marisa Monte, Maria Bethânia, un musical sulla vita di Elis Regina, e alla Biblioteca Nacional una mostra su Chico Buarque in occasione del suo sessantesimo compleanno (quest’ultima esattamente dieci anni fa, nel 2004: Chico ha infatti da poco compiuto i settanta).

E poi, la casa coi mattoni a vista in un quartiere povero, il continuo assalto delle formiche, la radio evangelica a tutto volume dalla finestra dei vicini, la mancanza della lavatrice, i motel, il lavoro nel settore nautico, i lunghi viaggi notturni da Rio a Curitiba in autobus – mio papà abita a Curitiba – sono tutte cose che che ho vissuto sulla mia pelle, e dalle quali sono partita per immaginare la storia di Angela nella sua tappa carioca.

Francesca Bonafini, breve nota bio-bibliografica.

Francesca Bonafini è nata pigra, golosa e lussuriosa a Verona nel 1974. Vive a Bologna, vorrebbe vivere a Genova, passa molto tempo in Abruzzo, o sui treni, o in compagnia dei gatti. Sa di non sapere nulla e nemmeno può incoronarsi di allori formali di alcun tipo, ma vanta una certa esperienza nel perdersi in quisquilie d’amore. Prima di Casa di carne (Avagliano, 2014) sono usciti il romanzo Mangiacuore (Fernandel, 2008) e il romanzo collettivo Il cavedio (Fernandel, 2011). Numerosi suoi racconti sono apparsi su riviste, quotidiani e antologie, ed è presente nel Dizionario affettivo della lingua italiana (Fandango, 2008) con il lemma «zaino». Ha scritto di musica italiana e in particolare di Ivano Fossati nel volume Sex machine. L’immaginario erotico nella musica del nostro tempo (Auditorium, 2011). Cura la rubrica di libri “Mandibola. I nutrimenti di Bonnie” sulla rivista «Stra Occupati», free press abruzzese.

 

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